La Mafia e le donne d’onore. Un quadro generale – Parte seconda
Volendo andare indietro nel tempo, non può non ricordarsi la figura di Assunta Maresca, nota alle cronache come “Pupetta” Maresca. Questa, moglie del potente camorrista Pasquale Simonetti, meglio noto come Pascalone ‘e Nola sposato nel 1955. Dopo 80 giorni dal matrimonio il marito venne ucciso in un agguato e Pupetta, allora appena diciottenne, esattamente ottanta giorni più tardi, sparò all’uomo che aveva ucciso il marito. Scontata la pena, in un’intervista rilasciata alla giornalista inglese Clare Longrigg dichiarò: “Sono rimasta con mio marito tutta la notte mentre stava morendo. Mi sono fatta dire chi gli aveva sparato. La polizia sapeva chi era ma non lo hanno arrestato. Non avevo altra scelta”.
Con quell’omicidio, commesso pubblicamente, alla presenza di parecchi testimoni, Pupetta si conquistò la reputazione di donna d’onore. Se non avesse compiuto quel gesto ne sarebbe rimasta sminuita la sua reputazione e non avrebbe più potuto vantare la status di vedova di un boss importante. Con l’uccisione dell’uomo che aveva assassinato il marito, Pupetta aveva in un certo senso ereditato l’autorità di quest’ultimo. Ed infatti, durante la detenzione godeva del rispetto delle detenute che la servivano, le portavano il caffè caldo e la biancheria da letto pulita. Ma non solo. Spesso si rivolgevano a lei chiedendo il suo aiuto. In altri termini divenne il boss delle detenute. Faceva portare cibo per le meno fortunate, sosteneva i loro diritti.
E che dire di Saveria Palazzolo, moglie di Bernardo Provenzano, la quale, dopo che nel 1969, a seguito della emissione di un mandato di cattura per omicidio, il marito si rese latitante, prese in mano gli affari finanziari di quest’ultimo iniziando a gestire le sue numerose società. Fino a quando non fu raggiunta da un mandato di cattura rendendosi latitante, la Palazzolo fece importanti investimenti, comprando titoli azionari e acquistando la quota di maggioranza di una impresa edile. Anche durante la latitanza peraltro, avvalendosi della consulenza del commercialista Giuseppe Mandalari, come sostenne la Guardia di Finanza, investiva, per conto del marito, in beni immobili, denaro proveniente dal traffico di stupefacenti.
Ed ancora possono ricordarsi Ninetta Bagarella che, allorquando era fidanzata con Totò Riina, venne, proprio da chi scrive, proposta per il soggiorno obbligato essendo stata ritenuta elemento socialmente pericoloso o ancora Rosetta Cutolo che dopo l’arresto del fratello assunse la gestione delle attività criminali della Nuova Camorra Organizzata. In tempi più recenti indagini accertarono il ruolo di rilievo assunto da Nunzia Graviano allorquando i fratelli Filippo e Giuseppe furono arrestati quali responsabili della strage di Capaci. La Graviano si trasferì allora in Costa Azzurra dove, dando prova di capacità manageriali, investiva il denaro proveniente dal traffico di droga.
Altro esempio di donna che durante la detenzione del marito prese le redini degli affari della cosca è dato da Patrizia Ferriero, moglie del boss della camorra Raffaele Stolder, che dopo l’arresto di quest’ultimo prese il suo posto nel traffico di cocaina. La Ferriero teneva una accurata documentazione dei propri traffici e aveva sul suo libro paga diversi poliziotti. Quando fu arrestata, sotto casa sua, venne scoperta una camera blindata sotterranea dove venivano custodite droga ed armi. Venne alla luce anche un passaggio segreto che dava accesso alle fogne di Napoli e quindi ai sotterranei delle banche.
Ai vertici della cosca mafiosa di Calatabiano, dopo l’arresto del marito, il boss catanese Antonino Cintorino, condannato all’ergastolo, risultò Maria Filippa Messina che nel luglio del 1997, primo caso in Italia, fu sottoposta al regime del carcere duro e successivamente al 41bis. Dopo tale provvedimento scrisse una lettera ai giornali. “Mi puniscono perché non voglio fare la pentita”. La Messina gestiva un racket di protezione ed importava armi dalla Iugoslavia. Quando nel 1995 venne arrestata stava organizzando lo sterminio del clan rivale, intenzione che fu scoperta dalla polizia che aveva piazzato delle microspie nella sua abitazione.
Malgrado quindi la struttura apparentemente rigida della mafia, si è andato affermando ed emergendo sempre di più, un ruolo significativo delle donne, non solo come trasmettitrici della cultura mafiosa in seno alla famiglia, ma anche nella gestione dell’attività delle cosche e ciò a partire dagli anni 90 quando le prime donne, mogli, madri, amanti di mafiosi iniziarono a collaborare mostrando di essere a conoscenza di molte cose della organizzazione mafiosa.
Ma il coinvolgimento di donne in crimini mafiosi risale a molti anni prima degli anni 90. La prima donna siciliana condannata per appartenenza a Cosa Nostra è stata Maria Catena Cammarata, impiegata all’ufficio postale del suo paese, Riesi. I giudici di Caltanissetta che l’hanno condannata a sei anni e sei mesi di reclusione accertarono che la Cammarata, dopo che i suoi fratelli Pino e Vincenzo si erano dati alla latitanza, era diventata a tutti gli effetti la “reggente della famiglia”. Dopo la condanna, proprio come un vero boss, non ha mai dato segni di cedimento.