Tragedie in tre atti
Belìce 1968, il primo grave terremoto dell’Italia repubblicana, andato in scena per l’intero paese e il primo che ha richiesto una reazione collettiva. Purtroppo negli ultimi anni abbiamo assistito a numerose e dolorose repliche, fino al sisma di questi giorni che ha divorato con famelica violenza interi paesi dell’Italia centrale.
Il terremoto è una tragedia in tre atti non uguali. Abbiamo un lungo prologo, poi l’atto principale che rappresenta la violenza delle emozioni e l’epilogo che ne dispiega le conseguenze.
L’atto principale, il vero e proprio dramma, è una nemesi della natura che si fa beffe del nostro Antropocene, un’epifania della sua distruttiva forza interna che si manifesta sull’epidermide del pianeta su cui viviamo aggrappati con egocentrismo. E su cui dispieghiamo l’insostenibile impronta delle nostre attività: esteso melanoma sulla superficie del pianeta. Durante quella drammatica esibizione di forza che è un terremoto non c’è nulla da dire perché persino il suono scompare ingogliato dalla terra e un assordante silenzio riempie ogni anfratto. Troppe volte in Italia il dramma sismico ha consumato vite, storie, passioni e speranze. Ha ucciso giovani e reciso legami familiari, ha distrutto intere comunità, ha polverizzato economie. Quanto dolore, quanta tristezza, quanto pianto davanti a quell’atto potente che il terremoto rappresenta sulla scena della vita.
Ma non è dell’atto tellurico che voglio parlare, perché come dicevano i pitagorici esso è Arreton, indicibile, e le nostre parole non sono sufficienti a descriverlo.
Vorrei parlare invece del prologo, perché il prologo è la nostra vita quotidiana in città nuove ma fragili, in città antiche indebolite dall’incuria, in città metropolitane che si sono espanse senza regole o in piccole comunità che si sono trasformate con troppe deroghe. Perché è nel prologo che il terremoto comincia a manifestarsi, insinuandosi nella nostra vita quotidiana distratta. Si incunea tra i nostri pensieri che cercano scaramantici il suo oblio, si annida sotto le nostre case costruite senza regole antisismiche, penetra nei tessuti delle nostre città senza piani di protezione civile, si accomoda nei comportamenti delle comunità che non conoscono le procedure di evacuazione sicura. È nel prologo che dovrebbero essere preparate le parti, provati i passi e predisposte le scene che ci serviranno ad affrontare da protagonisti l’antagonista quando si manifesterà con tutta la sua forza durante l’atto sismico. Fuor di metafora, non possiamo tra un sisma e l’altro, sempre più frequenti e dirompenti, limitarci a contare e piangere i morti o a inseguire sotterfugi costruttivi che hanno il sapore di un inutile scongiuro quando non del reato. Dobbiamo invece pretendere un piano di manutenzione, adeguamento strutturale e sicurezza idrogeologica del territorio in cui abitiamo. Un New Deal della qualità e sicurezza del territorio, che coinvolga i nostri giovani professionisti, le menti più predisposte alla nuova cultura del territorio. Così come pretendiamo che il più inutile degli elettrodomestici che usiamo ogni giorno sia sicuro per noi e le nostre famiglie, altrettanto non lo devono essere le case, le città, le strade, le fabbriche che abbiamo scelto come contenitore dei nostri amori, dei nostri sogni, del nostro lavoro e dei nostri progetti di futuro? Qualità e sicurezza del territorio devono tornare priorità dell’agenda politica del paese, ma soprattutto devono diventare priorità della nostra agenda personale e collettiva, pretendendo una nuova e diffusa cultura del territorio e cura della casa comune.
E poi c’è l’epilogo, spesso messo in scena come dialettica tra i fautori della ricostruzione com’era e dov’era e gli araldi di un trasferimento dell’abitato che troppo spesso è stato la maschera per operazioni urbanistiche ed edilizie quantomeno discutibili – anche quando figlie di un pensiero razionale – talvolta senza qualità e soprattutto non risolutive: il Belìce quasi cinquant’anni fa o l’Aquila pochi anni or sono. Allora anche l’epilogo dopo i bradisismi dell’atto principale è importante, ma non per stabilire quale delle due soluzioni sia la preferibile, non per cercare un modello astratto replicabile dopo ogni terremoto e in ogni circostanza, ma per studiare – si studiare, approfondire, sperimentare, discutere con razionalità e condividere – le azioni più adeguate per ricostruire non solo le pietre – importanti è ovvio – ma le comunità. Per ricostruire soprattutto le identità dei luoghi distrutti, le relazioni affettive e funzionali tra le persone e le loro case, per sanare gli organismi simbiotici umani e urbani che erano le nostre città prima che il terremoto ne dissolvesse i legami più profondi, smottando pietre ma ancor di più frantumando anime.
E qual è il modo per ricostruire questi legami tra uomini e territorio? Quello di progettarli insieme, di fare della ricostruzione un esercizio di urbanistica collaborativa che non decida pregiudizialmente se il paese o il quartiere vanno ricostruiti imitando l’antico o se debbano essere occasione per rendere le condizioni abitative più salubri e adeguate. Ma che invece progetti, rapidamente e senza oziosa perdita di tempo, attorno al desiderio degli abitanti sopravvissuti, interpretando in che modo loro ritengano più adeguato ricostruire quel legami urbani che il terremoto ha reciso, in che modo riconnettere i cicli di vita sperimentando soluzioni architettoniche e urbanistiche che con capacità, sapienza e lungimiranza sappiano mettere insieme il patrimonio delle identità con la creatività dell’innovazione.
Allora che nell’epilogo si manifesti l’urbanistica, non come un astratto Deus ex Macchina, ma come una forza collettiva e dialogica, la vera urbanistica corale che è patto di comunità, che è accordo tra uomo e natura, che è armonia tra spazio costruito e sensibilità dei luoghi, che è opera collettiva e culturale e mai solitaria e esclusivamente tecnica.
E ovvio che in questo momento siamo rapiti dalla forza espressiva dell’atto principale, che ottenebra i nostri pensieri con l’emozione per le vittime e non riusciamo a sentire le voci sagge del prologo né quelle lungimiranti dell’epilogo. Ma è un nuovo finale quello che noi auspichiamo e a cui vogliamo assistere con speranza, forse nella prossima rappresentazione. Che l’emozione di questa tragedia ci faccia scrivere un prologo più forte che sia da premessa ad un epilogo in cui, senza il dolore dei morti e con la popolazione salvata dalla prevenzione dispiegata attraverso la manutenzione adeguata, si possano progettare la forma e la sostanza delle relazioni della ricostruzione.
Scrivo queste brevi riflessioni, quasi appunti scritti in un fazzoletto intriso di lacrime di commozione, da Poggioreale Antica durante il Festival “Visioni Notturne Sostenibili” che con l’energia delle idee e la forza delle proposte dei giovani che lo animano da cinque anni contribuisce a scrivere un nuovo epilogo non solo per questo lacerto di città, per questa calcografia di vite umane, ma anche per altri centri dell’arcipelago Belìce che vogliono scrivere una nuova storia comune che riconnetta il tessuto culturale, sociale e territoriale lacerato dal sisma prima e dalla ricostruzione imperfetta dopo.
Non lasciamo che anche stavolta il dolore ottenebri la nostra razionalità e ci ottunda in un eterno presente, immaginiamo un diverso futuro possibile per il prossimo terremoto.