Un posto per la filosofia
Delle ragioni della sostanziale assenza dei pensatori nel dibattito pubblico in tempi di lockdown
Durante il primo congresso della Società filosofica italiana,104 anni or sono, Federico Enriques sottolineava «l’assurdità di preparare i futuri filosofi con un’esclusiva educazione storica e letteraria». Enriques, per innalzare culturalmente il nostro Paese e aprirlo alla democrazia, proponeva una nuova forma di collaborazione tra filosofia e scienza ad iniziare dai curriculum universitari.
La nuova proposta veniva considerata da Croce e Gentile foriera di dilettantismo scientifico o dilettantismo filosofico. Inoltre, secondo i due intellettuali, la scienza – per la sua frammentarietà specialistica e la sua natura pratica – non ha nulla da dividere con la filosofia, interessata alla comprensione dello sviluppo del reale e dello spirito nella sua totalità. Lo scontro tra le due diverse prospettive nascondeva due diversi modi di considerare il ruolo della filosofia nella società e due diversi modi di considerare i cittadini italiani.
Il discorso di Enriques non sarebbe stato tirato in ballo se l’esperienza Covid-19 non avesse messo in risalto, durante il lockdown, la quasi assoluta sparizione dei filosofi dai mass media, dove esperti di ogni tipo sono stati invitati per analizzare l’emergenza e fornire ricette, previsioni, consigli. Le poche iniziative realizzate dai filosofi hanno solo alterato la loro consapevolezza del deficit di credito sociale che questa scienza sta vivendo in uno dei pochi paesi al mondo in cui è presente in tutti i licei e in molte università italiane.
Proviamo adesso ad ipotizzare una spiegazione per rendere conto dell’accaduto. La prima ragione della sparizione dei filosofi dai media durante un periodo tanto delicato è, forse, da attribuire alla diffusione dell’iper-specialismo. Pertanto, non sarebbe stato per nulla ragionevole richiedere un parere specifico a chi si vanta di poter affrontare de omnibus rebus et de quibusdam aliis. I filosofi tendono a usare la loro conoscenza della storia della loro disciplina per sentirsi autorizzati a parlare di tutto, pur avendo raramente qualche reale competenza in particolari ambiti tecnici. A tale argomento è possibile replicare che durante l’emergenza Covid-19 sono state interpellate anche altre figure non specialistiche, ritenute utili in virtù del loro status di intrattenitrici. Dunque, se questa replica è da accogliere, il basso status della filosofia dipende non dal suo non avere ambiti di specializzazione pratici, quanto nella sua scarsa utilità sociale.
Un’altra ipotesi che potrebbe spiegare la crisi della filosofia fa leva sul fatto che essa, in Italia, sia vissuta in piena opposizione alla scienza. Un Paese che considera la scienza con deferenza non può che essere sospettoso nei confronti di chi non è amato dalla scienza. In effetti la maggior parte degli iscritti in filosofia non desiderano avere più contatto con le materie scientifiche. Se questo secondo argomento è vero, allora, in un momento in cui un intero Paese necessita della scienza e delle sue soluzioni, non si può dare uno spazio significativo a una disciplina pregiudizialmente considerata antiscientifica. Tutto ciò sarebbe corretto se l’Italia fosse realmente un Paese incline alla cultura scientifica, piuttosto che alle pseudoscienze, al bigottismo, al “miracolismo”, e allo sperimentalismo acefalo.
L’Italia, durante l’emergenza Covid-19, è apparsa fieramente scientista solo perché ha usato la scienza come supporto per una classe politica e una popolazione smarrita e disorientata, giocando il ruolo dell’oracolo di Delfi. Ben altre evidenze ci mostrano le indagini OCSE PISA, Invalsi, o gli investimenti nella ricerca sul rapporto tra il sistema paese e la cultura scientifica.
È possibile, allora, avanzare un’ulteriore ipotesi. La filosofia non tende a dare certezze, ma a porre domande, a mostrare la complessità delle questioni e i limiti delle soluzioni, a evidenziare problemi concettuali, fattori di crisi e i rischi propri di un ambito. Durante la pandemia, l’esigenza politica e mediatica fondamentale è stata quella di rassicurare e intrattenere. I politici, così come molti italiani, si sono aggrappati agli scienziati pretendendo soluzioni e certezze. I filosofi non sarebbero stati interpellati perché portatori strutturali di incertezza. Per dirla con Kant: in un Paese di minorenni a che serve chi ti tratta da adulto?
Questa ipotesi esternalizza la crisi di status dei filosofi, scaricandolo sul sistema culturale italiano che sembra rifiutare forme di sapere critico.
Facendo però l’avvocato del diavolo, chiediamoci: perché, allora, i media non hanno preso in considerazione almeno la funzione consolatrice della filosofia che mira ad una vita serena sempre e ovunque? Questo ruolo le avrebbe dato una forma di utilità perché portatrice di tranquillità sociale. Rimane il dato di fatto che neppure per questa ragione il filosofo ha ricevuto inviti di sorta per incontrare il grande pubblico.
Ammettendo, però, che l’apparato culturale italiano tende a creare individui che non amano la scienza, non inclini all’esercizio critico, senza un organico sistema di valori etici, preferendo un asistematico pragmatismo, un inorganico e incoerente sincretismo culturale (secondo cui l’azione deve prevalere sul pensiero razionale) utilizzato strumentalmente e nell’orizzonte dell’hic et nunc, come può la filosofia sentirsi non responsabile di questo sfacelo culturale, dato il ruolo da essa giocato nelle scuole e nella vita accademica?
Un popolo non assume un’identità culturale meccanicamente. Essa è figlia dell’educazione ricevuta, che è, in primis, frutto delle scelte della sua classe politica e intellettuale. Se è vero che il sistema culturale italiano è nemico di un approccio critico, allora è compito dei saperi critici e democratici collaborare per cambiarlo. Per fare ciò, la filosofia non può arrogarsi il monopolio dell’esercizio della critica: deve riconoscerlo anche ai suoi figli naturali, imparando a collaborare con la scienza in un rapporto simmetrico.
Scienza e filosofia, notava Enriques, non sono antagoniste, hanno approcci simili.
Entrambe tendono a mettere in crisi i propri presupposti, sono antidogmatiche, valutano le loro tesi attraverso argomenti di cui controllano la validità, non credono nell’assolutezza e astoricità del sapere umano, accettano il dubbio. Alcuni scienziati oggi sostengono l’importanza della collaborazione delle due discipline. Questa è la strada per aiutare il sistema culturale di questo paese a produrre individui con un’attitudine mentale alla critica, al dubbio e al metodo scientifico. Ma se una collaborazione tra scienza e filosofia è doverosa, la sottomissione dell’una altra è altrettanto pericolosa.
Nel liberalismo, per evitare la tirannide, i tre poteri rimangono indipendenti, limitandosi reciprocamente. Scienza e filosofia devono conoscersi meglio e ognuna deve esercitare una funzione di controllo critico sull’altra, evitando che una delle due scada nella autocelebrazione di se stessa e dunque abusando del suo potere.
Tutto questo assicurerà al Paese: una ricalibratura dell’attività educativa e culturale; il compattamento di un fronte valoriale in grado di fronteggiare l’ignavia culturale che allontana la gente dai saperi critici; un surplus di democrazia; il concreto contatto dei filosofi con la realtà scientifica e la società.
Forse allora, i filosofi torneranno ad essere ospiti dei talk show.